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Yayoi Kusama e la malattia mentale

Aggiornamento: 30 ago 2021

Un pois ha la forma del sole, che è un simbolo dell’energia di tutto il mondo ed è la nostra vita vivente, e ha anche la forma della luna, che è calma (…). Un pois è movimento in divenire e tanti pois sono un modo per indagare l’infinito…”.


Quella di Yayoi Kusama è la storia di una fragile seppur coraggiosa donna. Ella, soffrendo di schizofrenia, secondo i vari manuali diagnostici, presenterebbe: deliri, allucinazioni uditive e visive, grave disorganizzazione del comportamento (nel vestiario, nelle abitudini diurne, nel disturbo del sonno), disfunzioni sociali e tanti altri sintomi annessi e concomitanti alla diagnosi principale. Tuttavia nessuno di questi sintomi e diciture tecniche servirebbe a descrivere quella che è l’esperienza di vita di questa artista. Nessuna di queste verità scientifiche potrebbe aiutare Kusama a sentire che la propria esperienza un senso l’abbia.


Se Kusama provasse a dire a qualcuno la citazione sopra riportata è evidente che questo qualcuno potrebbe prenderla come “matta” (medici compresi); nessuno potrebbe tollerare che un puntino bianco non sia solo un puntino ma molto altro, tanto altro.


Penso a me, alle dimostrazioni “evidenti” dei teoremi matematici che per me, alle scuole elementari, non lo erano affatto, ai diversi altri modi che avevo di risolvere un problema, un'espressione, una divisione. Penso così a quanto dice lo psicopatologo Lorenzo Calvi <dietro l’affermazione di evidenza si sente affacciarsi bruscamente un atteggiamento autoritario ed anche una minaccia: “se tu non condividi subito e senza discussioni quello che per me è evidente, tu sei tagliato fuori dalla verità”> e dunque tagliato fuori dal mondo e dunque dal senso comune, da quello che non può non essere evidente a tutti.


La storia di Kusama mette in evidenza proprio questo, ovverosia le “sicurezze” su cui poggia la nostra vita, la quotidianità dei nostri gesti. L’artista giapponese infatti sembra mettere in crisi l’uomo comune, colui che “risponde” al mondo e ai suoi bisogni senza particolari ricerche di senso, di ragione, di nesso; colui che si esprime spesso con la frase “ma non vedi che le cose stanno così?!” facendo così sentire mancante, colpevole chi, come lei, non vede quella stessa cosa, quella stessa evenienza, solo un puntino.

Ma non solo.


Kusama - definita dal Giappone “vergogna della nazione” - con la sua malattia, è stata capace, di mettere a nudo i “saperi” della psichiatria e della psicologia, volti a patologizzare, ghettizzare, attenti a misurare, differenziare cosa sia normale o anormale, evidente o non evidente.


Ma come può uno esperto della salute mentale “aiutare” Kusama (o più in generale tutti i sofferenti mentali) se il vocabolario che ha a sua disposizione serve solo per tenerla a distanza? se le parole usate sono state “inventate”, come ben ricorda lo psichiatra Donald Laing, per circoscrivere in una particolare etichetta clinica/medica il senso della vita del "paziente"?


Se dunque da un lato è utile diagnosticare cosa sia lo stato di sofferenza, confusione, dolore, ansia, pressione che la persona sta provando, tuttavia è utile ricordare che questo atteggiamento rassicura solo l’esperto. La diagnosi non garantisce assolutamente nient’altro se non un peggioramento/distanziamento da quelli che sono i comuni termini umani che appartengono tanto al malato quanto a lui.


Conoscere non è sinonimo di capire: dire ad una persona - in evidente stato ansioso - di “rilassarsi e non pensarci”, non fa altro che allontanare quella persona da una possibile risoluzione del suo stato. Le risoluzioni di natura "scientifica" mediante rinforzi positivi o negativi, allo stesso modo, non sottendono la capacità di capire ma solo quella riguardante il conoscere e applicare delle teorie, senza considerare l’importanza dell’altro in quanto tale e senza esaminare la natura dei sentimenti personali che si rivolgono a quest’altro, come se i sentimenti del terapeuta/curatore fossero irrilevanti e non degni di nota.


Se non disponiamo della plasticità sufficiente per trasportarci in un mondo-altro, diverso dal nostro, non potremmo mai cogliere che Kusama, nei suoi pois, non vedeva solo dei punti, ma qualcosa che le ha permesso di tenersi in vita, di scoprire l’essenza che si nasconde nelle cose del mondo.


Kusama infine, mi preme sottolineare che è tutt’ora ricoverata spontaneamente al Seiwa Hospital di Shinjuku, di fronte al quale ha allestito il suo atelier. Mi piace pensare che, circondata da altri “matti” riesca sempre a cogliere la forza disarmante della vita, quella che solo certuni possono permettersi.




BIBLIOGRAFIA

Galimberti U., (2007) Psicologia, Garzanti, Milano

Laing R.D., L'io diviso, Enaudi, Torino, 2010

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