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Solitudini e Covid-19


La fenomenologia dice che quello che ognuno di noi prova sulla sua pelle, al di la delle varie teorie apprese, è l'unico modo che abbiamo di poter comprendere e avvicinarci delicatamente a ciò che è l'esperienza - dolorosa o meno - di un qualsiasi altro essere umano come noi.


In questa prospettiva non è il mio "essere-medico" ma il mio "essere-persona" dotata di emozioni al pari della persona di fronte a me, ciò che mi permette di empatizzare con questa e con quella che è la sua esperienza di vita.


Quando, ad esempio, un mio paziente mi ha parlato della solitudine schiacciante che il coronavirus gli ha fatto vivere, ho potuto comprendere ciò che diceva solo perché, come lui, ho provato qualcosa che assomigliava a quella sua.


Ho così pensato, grazie a questa persona, che questo dannato virus stia facendo uscire le parti più angosciose di noi. Le parti che nessuno immaginava potesse avere dentro di sé; quelle che, da un giorno all'altro, ci hanno fatto vedere il nostro vicino, il nostro amico, il nostro parente e noi stessi sotto una luce completamente nuova, mai conosciuta.


Io, col mio "essere-persona" ad esempio, ho provato tanti generi di solitudini: ho provato dapprima - nei mesi del lockdown - una solitudine positiva, nutriente, una solitudine che mi ha permesso di trovarmi in spazi, memorie e sensazioni che provavo da adolescente, quando gli hobby erano le cose più importanti a cui dedicare il tempo che mi rimaneva a disposizione una volta finita la scuola e i tutti compiti; una solitudine che non preoccupava poiché era quanto di più bello avessi per inventare e scoprire.


Poi ho provato una solitudine che aveva a che fare con l'isolamento. Mi pervadeva quando uscivo di casa (per lavoro e per la spesa): un gesto che sentivo essere una sorta di atto eroico, in avanscoperta, contro tutto e tutti. Le persone in giro però erano poche, spaventate quanto me, e tutte attente a non incrociarmi, a non parlarmi, a non guardarmi e a starmi distanti. Ma infondo non mi pesava ancora. Sentivo sopratutto l’eccezionalità dell'evento e di quello che ci succedeva.


Poi ho provato una solitudine il cui senso era quello dell'indifferenza e forse dell'abitudine. Ho infatti cominciato a non fare più caso a quello che mi succedeva intorno; ho ripreso il lavoro tutti i giorni, ho imparato a guardare le persone solo negli occhi, ad ascoltare le loro voci ovattate; a guardare chi mi piaceva e interessava solo dal taglio di capelli, degli occhi e degli abiti indossati. Non facevo e non sentivo la differenza tra il pre-covid e il post-covid.


Poi ho cominciato a sentire una solitudine - che credo di portarmi tutt'ora - e che si mischia con la rabbia. Non la sento pesante, non la sento fastidiosa, ingombrante. L'avverto però.


La riconosco le volte in cui provo a pensare al futuro più prossimo, quello che vorrei poter riempire di viaggi, compagnia, aerei, città e persone nuove.


Mi ritrovo così a provare sensazioni di rabbia e frustrazione per quello che non posso fare, per quello che non posso pensare, per quello che mi costringe a non potere disporre dei miei desideri, delle mie piccole gratificazioni.


La sento, allora, la solitudine. La sento dirompere, un tentativo di azzittirmi, di prosciugarmi, di togliermi quello che voglio, quello che posso.


La sento, allora, la solitudine. Anche quella del mio paziente. E forse comprenderla lo aiuta a sentirla un pò meno dolorosa, dirompente.

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